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lunedì 26 agosto 2013

CONFUTAZIONI DI ASTROLOGIA E MAGIA - II PARTE

Gli Etruschi tra religione e magia

Secondo Tito Livio gli Etruschi erano “un popolo sommamente dedito alle superstizioni”. Indubbiamente la religione, o meglio il rituale religioso, ebbe parte notevole nella vita e nella mentalità etrusca, basti pensare che i più importanti documenti letterari in lingua etrusca sono di argomento sacro: dal liber linteus, un calendario sacrale del II sec. a.C. scritto su una tela di lino riutilizzata per bendare una mummia (la “mummia di Zagabria”), alla tegola di Capua (V sec. a.C.), che prescrive i rituali per gli dèi degli inferi, alle lamine d’oro di Pyrgi (VI sec. a.C.), forse un responso oracolare.

2.1. Le divinità mostruose ereditate dal mondo greco

Anche nella sfera religiosa l’apporto culturale greco fu determinante, anche se venne innestandosi su un diffuso e profondo sentimento del sacro che ci è testimoniato già in età protostorica. Probabilmente, in quest’epoca, le divinità si identificavano con le forze elementari della natura e venivano raffigurate sotto forma di animali o mostri. Il coperchio bronzeo di Bisenzio (VIII sec. a.C.) ci testimonia uno di questi rituali, con guerrieri che danzano intorno a un essere fantastico di grandi dimensioni; ancora in età successiva sopravvivono miti, come quello del mostro Olta, emerso dal terreno a Volsinii, in cui riaffiora il ricordo del lato mostruoso della divinità. Altre identità divine, derivate da un sostrato ideologico preistorico e che non potranno essere ricondotte al modello greco, sono quei dèmoni o geni, come le Lase, di difficile e non univoca definizione, che forse avevano nella tradizione del culto domestico degli antenati la loro origine.

2.3. Gli dèi in forme umane

L’identificazione compiuta, a partire dal VII sec. a.C., con le divinità del pantheon greco portò anche alla adozione della forma antropomorfa per la raffigurazione degli dèi, anche se, in alcuni casi, il parallelismo era indicativo. La Menerva etrusca era una dea del fato e degli oracoli, diversa dalla Atena, con cui fu identificata, e anche Uni, l’equivalente di Hera, era di fatto più vicina alla dea fenicia Astarte. Rapidamente assimilati furono anche i miti di origine ellenica, come quelli del ciclo di Eracle o di Teseo, che divennero simboli e allegorie trasparenti dell’aristeia (eccellenza aristocratica) e della regalità.

2.4. Aruspicina e divinazione

Sarà però nel campo dell’aruspicina (interpretazione dei segni) e della divinazione che gli Etruschi ebbero fama incontrastata nel mondo antico. A tal punto fu curato questo aspetto del rito - l’Etrusca disciplina, come la chiamavano i Romani - che in età romana era noto un corpus dottrinale immenso, composto da decine di libri relativi alla divinazione, all’interpretazione dei fulmini, alle prescrizioni relative al culto dei morti. L’arte della lettura delle “norme oscure del fato” era, infatti, dominio di una casta di aruspici, riuniti in età tarda (fine I sec. a.C.) nel collegio dei sessanta aruspici che aveva sede a Tarquinia, cui era affidato il compito di interpretare il volere divino attraverso la lettura di segni oscuri e complessi. Così, ad esempio, la caduta di un fulmine acquisiva un significato diverso a seconda del settore del cielo in cui era avvenuto il fenomeno, se cioè questo si era manifestato nelle sedes (settori) degli dèi celesti o degli dèi inferi; allo stesso modo la lettura della conformazione del fegato della vittima sacrificale poteva fornire indizi analoghi, dividendo l’organo in decine di settori diversi a ognuno dei quali, come sappiamo dal modello in bronzo di Piacenza (II sec. a.C.), era preposta una divinità diversa.

2.5. Cenni sulla religione romana

La religione romana ha mutuato molto da quella degli Etruschi. Essa comunque non insegnava una dottrina, ma faceva soltanto conoscere le cerimonie che bisognava compiere per ottenere il favore degli dèi. Gli dèi dei Romani differivano da quelli dei Greci, che avevano ciascuno la sua storia e le sue avventure. Gli dèi dei Romani erano degli esseri vaghi, sui quali non si sapeva nulla di preciso; spesso non avevano neppure un nome proprio, oppure, se ne avevano uno, quando li si invocava si aggiungeva: “Preferisci che ti chiami con un altro nome?”.
Gli dèi erano numerosissimi: vi era un dio della porta, ma vi erano anche un dio dei cardini e uno della soglia. Ogni uomo aveva il suo “genio”, ma vi era anche un dio speciale che spingeva il neonato a lanciare il suo primo grido, vi era un altro dio che gli insegnava a bere, un altro a mangiare, un altro ad uscire di casa, un altro a rientrarvi, ecc.
Quando si sapeva a che dio bisognava indirizzarsi, bisognava rivolgersi a lui impiegando certe formule, senza cambiare una sola parola, e facendo certi gesti. Vi erano frasi che bisognava pronunciare girando su se stessi, altre che si dovevano ripetere ventisette volte, sputando ogni volta in un certo modo. Poi si offriva al dio un sacrificio: talvolta dei frutti o delle focacce, talvolta del vino o del latte, talvolta degli animali che venivano uccisi. I Romani credevano anche che gli dèi facessero conoscere la loro volontà agli uomini. In certi casi, rispondevano ai problemi che venivano loro sottoposti: queste risposte si chiamavano auspici. In altri casi, essi inviavano di propria iniziativa dei segni che erano detti presagi.
Esisteva una religione domestica (cioè propria di ciascuna famiglia) e una religione dello stato. Nella religione domestica, gli dèi più importanti erano gli antenati della famiglia (i Mani). C’erano poi i Penati (dèi della dispensa) e quelli della proprietà familiare (i Lari).
Nella religione dello stato vi erano soprattutto i grandi dèi che proteggevano lo stato romano (Giano, Vesta, Giove, Marte). Come il padre offriva sacrifici nella casa a nome della famiglia, così il re (e poi il console) li offriva in nome dello stato. Per aiutarlo in questa funzione, vi erano al suo fianco dei sacerdoti che erano i suoi consiglieri religiosi. I principali erano i pontefici, che fissavano nel calendario i giorni fasti, in cui si lavorava, e quelli nefasti, in cui non si poteva lavorare. Alla loro testa vi era il pontefice massimo. Gli àuguri aiutavano i magistrati a ”prendere gli auspici”, cioè a porre un problema agli dèi e ad interpretare la loro risposta, dal volo degli uccelli o dall’aspetto dei polli sacri. Le vestali erano le sacerdotesse di Vesta, e non potevano sposarsi per tutta la durata del loro sacerdozio.
La religione romana si arricchì continuamente adottando gli dèi stranieri: dapprima le divinità italiche ed etrusche, poi quelle greche, infine certe divinità egiziane, siriache e persiane.
Molti uomini istruiti, sotto l’influsso di certi studiosi greci, abbandonarono le credenze religiose dei tempi antichi. L’irreligione fece, soprattutto nel I sec. a.C., rapidi progressi. Si diceva che due àuguri non potessero guardarsi senza ridere. Quelli che tuttavia sentivano il bisogno di credere in qualche cosa si orientarono verso le religioni orientali dell’Asia Minore e dell’Egitto (Mitra, Iside). I sacerdoti degli dèi orientali promettevano ai fedeli la salvezza individuale e l’immortalità. Le cerimonie religiose, a volte misteriose a volte splendide, accompagnate da canti e da musica, contrastavano con la freddezza del culto romano.
A questo punto dobbiamo accennare all’analogia che sembra intravedersi tra un versetto di Isaia (64:3) e 1 Co 2:9. Tuttavia i due passi, pur essendo simili in qualche espressione, sono assai diversi per i concetti espressi. 
In Isaia, nell’alternarsi di alti e bassi, si arriva alla constatazione che “il nostro Dio interviene (agisce) in favore di quelli che ripongono in Lui la loro speranza” (è questo un aspetto della “Divina Provvidenza”, cfr. Salmo 32:10b: “Chi confida nel Signore sarà circondato dalla sua grazia”). Il passo di Isaia mette tuttavia in evidenza che questo è un fatto inaudito nella storia del mondo: quando mai si è visto infatti che un dio pagano si sia occupato seriamente delle necessità dei suoi fedeli? 
In effetti nelle antiche civiltà (Mesopotamia, Egitto, e più tardi Grecia e Roma), le divinità venivano concepite come coloro che avevano fissato il destino (o fato), cui dovevano sottostare gli uomini. Di conseguenza gli eventi umani erano in genere ritenuti ineluttabili. Verso la fine del 1° millennio a.C. si diffondono però (come abbiamo detto prima) i cosiddetti “culti di salvezza” o “misterici”, specialmente quelli di Mitra e Iside, nei quali gli iniziati potevano stabilire rapporti diretti con la divinità, senza mediazione di sacerdoti, e aspirare così ad una risposta. 
Ma tutto questo, all’epoca in cui fu scritto il brano di Isaia, non si era ancora mai udito né visto, come infatti asserisce il testo. In effetti Paolo non poteva usare il versetto di Isaia nel suo significato originario, perché nel 1° secolo d.C. i culti misterici erano ormai diffusi in tutto l’impero. E così Paolo parla delle meraviglie che il Signore ha riservato per i suoi. Ecco il brano di 1 Co 2:9: “E’ scritto: 
“Le cose che occhio non vide, e che orecchio non udì, e che mai salirono nel cuore dell’uomo, sono quelle che Dio ha preparate per coloro che lo amano”. La difficoltà nasce dall’espressione “come è scritto”, che Paolo usa quando cita l’Antico Testamento. Fin dal tempo di Origene alcuni hanno pensato che Paolo citasse altri testi che poi sono andati perduti. Ma perché Paolo li avrebbe citati dicendo solennemente “è scritto”? Un commentatore noto per la sua “prudenza” così conclude: “Sembra che la cosa migliore sia supporre che il brano di Paolo sia la libera citazione di Isaia 64:4 con reminiscenze di altri passi biblici” (Leon Morris, La Prima Epistola di Paolo ai Corinzi, GBU, Roma).

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